UN VIAGGIO A MALTA
di Gennaro Lubrano Di Diego

Lo rividi nella primavera del 1980. Io frequentavo la II liceo, sezione D. Lui, da qualche anno, si era iscritto all’Università, mi sembra a Sociologia. Mi fece l’impressione positiva di sempre. Quel maglione rosso a girocollo con la camicia bianca che bordeggiava il suo simpatico viso ovale, la sfiziosa fossettina sul mento, gli occhialini tondi d’osso, i jeans evidentemente nuovi e le polacchine scamosciate gli restituivano la solita aria da bravo ragazzo. Sarà retorico e forse si correrà il rischio, dicendolo, di costruire un santino, ma Siani era proprio un bravo ragazzo, buono prima ancora che intelligente, leale prima ancora che capace, disponibile ancor prima di essere volitivo e determinato. Era la rappresentazione più viva della freschezza giovanile, dell’esuberanza di una generazione che nel suo caso era trattenuta e controllata dalla riflessione, dall’interesse culturale e – non vi appaia perbenismo spicciolo, il mio – anche dalla buona educazione. Siani aveva per un certo tempo ammiccato con il movimento del ’77 e aveva espresso un dissenso argomentato e non viscerale nei confronti delle rappresentanze politiche della sinistra storica, in particolare del PCI. Detto ciò, però, la sguaiatezza iconoclasta e il grigiore ideologico di certi ambienti estremistici non mi sembra si attagliassero molto alla sua personalità ariosa e mediterranea, nella quale la ribellione verso la società adulta cercava in ogni modo la strada della parola e dell’argomentazione razionale, rifuggendo, perciò, dal gesto eclatante e dalle scorciatoie emotive.

Giancarlo era già andato via da scuola qualche anno prima, ottenendo alla maturità il massimo dei voti. Ricordo che il settembre successivo al suo esame lo incontrai per le vie del Vomero; mi raccontò scanzonato e ridente che il padre, emozionatissimo, gli aveva telefonato, essendo lui già partito per le agognate vacanze, per comunicargli il felicissimo esito del suo esame. Avevo fatto la sua conoscenza tempo addietro, durante le chiassose assemblee che si svolgevano in Aula Magna e nelle riunioni del Collettivo Studentesco del Vico. Subito mi aveva colpito la sua solarità, l’umanità calda e sincera, sensibile ai problemi sociali ma aliena da qualsiasi arido schematismo ideologico. La Politica lo affascinava, come molti suoi coetanei, ma, a differenza di una parte della sua generazione, Giancarlo mi sembrava che non perdesse mai di vista il fatto che dietro i teoremi ideologici e le feroci dispute dottrinarie, che spesso si accendevano tra di noi, c’erano uomini in carne e ossa, sensibilità diverse e umanità varie, che non andavano offese e oltraggiate. Questo suo temperamento, civilmente e politicamente interessato, ma aperto alle variopinte articolazioni della vita, che è per fortuna più complessa delle semplificazioni intellettuali, si esprimeva anche nel fatto che Giancarlo, allergico alla seriosità dei leaderini studenteschi, spesso amava accompagnarsi a una comitiva di simpatici gaudenti, che conoscevano a puntino l’arte di godersi la vita. Insomma, a me che ero più piccolo, questo mio compagno di liceo era subito risultato immediatamente amabile, anche perché mi trattava con quella simpatica condiscendenza che si riserva a un fratello minore, evitando di fargli pesare la concessione per averlo ammesso a un consesso a lui teoricamente impedito dall’età. Negli anni seguenti lo avevo incrociato spesso, nei dibattiti che si tenevano a scuola, a cui di tanto in tanto anche lui partecipava da esterno, nei cortei studenteschi che sciamavano rumorosi per la città, alle Feste de “L’Unità”, alle manifestazioni per la pace, e avevo cominciato a capire che, più che negli studi universitari, Giancarlo stava investendo le sue energie intellettuali e la sua passione civile nel giornalismo, cominciando a collaborare a settimanali, periodici locali e giornali a tiratura regionale.
In quella primavera del 1980, quindi, mi accadde di incontrarlo a seguito di una circostanza fortunata. Un periodico locale, Scuola Informazione, con sede alla Riviera di Chiaia, a cui Giancarlo collaborava, aveva organizzato, con il patrocinio della Regione Campania, un convegno sull’informazione e sulla crisi dell’editoria; temi che già allora, in un’epoca ancora pre-berlusconiana, cominciavano a catalizzare il dibattito pubblico, per le ovvie implicazioni politiche e culturali che tali problematiche suscitavano. A quel convegno furono invitate anche le redazioni dei giornalini d’Istituto dei licei napoletani e a me toccò, in seguito a una rocambolesca vicenda, il compito di rappresentare il Vico in quella circostanza. A corollario di quell’esperienza, la Regione Campania, coadiuvata nell’organizzazione dal periodico a cui Giancarlo collaborava, organizzò un viaggio educativo a Malta, a cui furono invitati gli studenti dei licei napoletani che erano intervenuti al convegno. Pertanto, mi ritrovai in una folta pattuglia di liceali, al seguito di giornalisti e politici locali e così, a spese della Regione, trascorsi una settimana nell’isola del Mediterraneo, visitando scuole, ambasciate, complessi turistici e rendendo omaggio alle autorità politiche maltesi. In quel gruppo c’erano studenti del Pansini, del Genovesi, dell’Umberto, del Sannazaro, del Mercalli, una variegata ed eclettica compagnia in cui figurava anche qualche studente che un decennio più tardi avrebbe conosciuto i fasti e i riti burocratici di una carriera politica ministeriale. Fu questa la circostanza che ci fece incontrare di nuovo, in quanto Giancarlo aveva un ruolo attivo nell’organizzazione della spedizione di quella rumorosa frotta di studenti. Partimmo con una nave noleggiata all’uopo, in un’atmosfera festosa ed eccitata, nella quale spiccò l’estro, a metà tra il poetico e il tribunizio, dell’allora Preside del Liceo Umberto, che ci intimidì con i suoi ricordi di una scuola ormai scomparsa, autoritaria e inflessibile. Trascorremmo sette giorni stupendi, in una Malta esotica e arsa da un sole già estivo. Discutemmo molto e di tutto e non tralasciammo occasioni ludiche con cui stemperare qualche tediosità riconducibile al protocollo rigido delle cerimonie istituzionali. Giancarlo mi parlò delle sue speranze e mi espresse i suoi progetti. Gli lessi negli occhi sempre ridenti la passione per la professione che con ammirevole ostinazione stava inseguendo, non disdegnando le fatiche e anche talune umiliazioni di una inevitabile gavetta. L’entusiasmo con cui mi confidò le sue prime esperienze da aspirante giornalista fu per me, che allora coltivavo ancora confuse velleità, contagioso. Mi invitò caldamente, cosa che feci con puntualità una volta tornato a Napoli, a scrivere un articolo per la rivista a cui collaborava, sulla rappresentazione teatrale che gli studenti del Vico avevano allestito quell’anno e che vide la messa in scena di Non ti pago di Eduardo De Filippo. Tuttavia, Giancarlo aveva questo di buono, che non amava parlarsi addosso; quando, vinto dalla curiosità altrui, si lasciava andare a parlare di sé lo faceva sempre con grande pudore e discrezione e soprattutto con quell’allegria e quell’espressione disponibile e leale che io non ho mai più dimenticato. Per me che ero più piccolo, i suoi consigli e il suo sprone a studiare ma anche a divertirsi furono un incentivo a fare meglio e di più. La sua bonomia, condita di un’affettuosità sincera, ha lasciato una traccia indelebile nella mia memoria. Tornati a Napoli, i nostri incontri si diradarono e, come capita, con il tempo ci perdemmo un po’ di vista. Tuttavia, accadeva di tanto in tanto di incontrarci o in qualche locale o nel corso di taluni eventi pubblici a carattere politico-culturale. Ed era sempre una reciproca gioia. Così avvenne che in quel tragico settembre del 1985 lo incrociassi una sera alla Festa de “L’Unità”. Avrei voluto fermarlo, sapere di lui, della sua carriera che avevo appreso essersi avviata lungo un binario promettente; avrei voluto raccontargli di me, dei miei studi universitari, dei miei interessi filosofici per i quali egli mostrava sincera condivisione. Non feci a tempo, perché nella calca di quella festa lo persi di vista e non riuscii a raggiungerlo. Ne scorsi la sagoma quando mi era ormai impossibile richiamare la sua attenzione. Lo vidi correre via alla guida della sua simpatica auto, una Citroen Mehari verde cabriolet, i capelli al vento e la solita espressione ridanciana. Pochi giorni dopo, la tragedia che ci lasciò senza fiato. Tutti. Mi è rimasto nel cuore il rammarico per quell’abbraccio che non ero riuscito ad esprimergli. Ed è un rammarico che il tempo non riesce a stemperare.